Dai miei appunti di viaggio cade un rametto di timo. Non lo ricordavo, mi è finito sulla gamba. Ha la forma di un uncino, ha un profumo resistente. Così forte che disturba le narici che non sono pronte a riceverlo.
La carta me lo ha protetto dall’aria.
Benevento, si parte! Raggiungo Luca al tramonto. Arriviamo a Matera con le stelle e la pioggia sottile. È qui che la prima magnalonga del sud segna il suo itinerario.
Daniele Dimita, uno dei padri di questo cammino, ci aspetta assieme agli altri viandanti per la cena lucana.
Domenica, ore 9. Siamo dall’altra parte della gravina. Dal punto in cui tutta Matera si apre alla vista del viaggiatore. Oggi il cielo è libero dalle nuvole, ma non è azzurro. Si fa tutt’uno con la terra arsa dell’estate che si inacidisce all’autunno.
Le ferule, ci pensano loro con gli spuntoni a marcare il confine tra terra e cielo. Sono tutte organizzate come su di un pentagramma.
Cornetto e cappuccino. E via! Da Jazzo Gattini – vecchio ovile, sede del Parco della Murgia materana – si apre la steppa davanti agli occhi. Il primo orizzonte che mi taglia l’addome è la via Appia. Lei, che mi piomba ogni volta a fianco. O io che la vado sempre a cercare. Un po’ più lontano del mio sguardo c’è la terra lavorata di colore cioccolato, con case sparse e una famigliola di pannelli solari che dritti dritti calcano il territorio.
I piedi calpestano spezie, fiori, sto attenta a dove li metto. La terra è coperta di profumi, di petali di colore giallo, blu, lilla. Il timo ci accompagna fino alla chiesa rupestre di San Nicola all’Appia, senza tregua, dove i sedici suonatori di Montescaglioso – The Original Band – ci regalano piacevoli note musicali, all’ombra della grotta, composti e con le trombe inclinate.
Non è passato un chilometro di cammino che la Murgialonga ci dà da bere e da mangiare: vino rosso e focaccia alla chianca, che in dialetto lucano vuol dire pietra. Cotta su pietra.
Il sole è alto, e per resistergli ci vuole impegno. Avanziamo verso l’inguine della Gravina, faccio dei passi con Daniele. Viso greco, sguardo riservato. Di poche parole, un autentico uomo lucano. L’idea di questo viaggio è di Scorribande culturali, di Vito Cappuccio, che ha tracciato la strada assieme a Saverio Tarasco, del Centro di educazione ambientale, e a Francesco Foschino, guida.
«Ma non siamo solo noi. Ci sono molti volontari che si stanno muovendo nella stessa direzione, giovani che sentono questo forte senso di appartenenza alla murgia materana», dice Daniele.
Il sentiero finisce nelle rupi, c’è spazio per soli due piedi.
Il torrente Jesce arriva dalla statale 7, dell’Appia, e corre parallelo alla Murgia Timone per andare a confondersi per sempre nel torrente Gravina. Assieme a lui viaggiamo sul tratto che porta allo Jazzo della Lupa, un punto in bilico sull’anima rocciosa umana, dove i Sassi si avvicinano lenti agli occhi.
Resto sola per quattrocento metri, i più belli di questa giornata osteggiata dalle nuvole.
Jazzo della Lupa. Narciso!
Narciso vagava in campagne fuori mano e Eco se ne innamorò, ne seguì le orme di nascosto. E quanto più lo seguiva tanto più vicino alla fiamma si bruciava. Le Rabdoamanti, Anna Onorati e Rita Montinaro, infuocano il sole di mezzogiorno con la rappresentazione del mito nell’incavo della Lupa.
Una stazioncina di posta artigianale distribuisce tarallini e vino. E Matera appare ancora più vicina come la costa che aspetti di vedere dopo tanto mare. Il sasso Caveoso!
Raffaele, guida spensierata, racconta di quando Matera era in Puglia, prima del 1663.
Matera, terra d’Africa. Gola di mezzo. Che custodisce nei suoi inferi una delle cisterne più grandi d’Europa, il Palombaro lungo. Matera, a un passo dall’impero ottomano. Città della raccolta delle acque, come Istanbul.
Madonna delle Tre porte è la prossima chiesa rupestre. Un tesoro che resiste al tempo e custodisce quei brandelli di anima che sono sfuggiti ai predoni nordici.
I passi si fanno complicati, sulla cresta d’Africa il sole batte forte anche in primissimo autunno. Faccio un pezzo di ciottoli con Roberta dagli occhi ghiaccio penetrante, poi ritrovo Stefano di tanto in tanto a cogliere un filo d’erba, uno stato d’animo. Cammino con Marialuisa nell’ultima parte del percorso. E Gianpascal, in perenne contatto con la gravina. Compiaciuto, di un sorriso capace di sfumare il calore malato di quest’ora, profezia di correnti d’acqua all’orizzonte.
Chiesa rupestre di San Falcione, convivialità. Il momento più vero del cammino. Orecchiette, vino, e vento d’oriente.
Rino e Piernicola Locantore, padre e figlio, hanno l’arte nel cognome. Voce massiccia il primo, dita irrequiete il secondo, allietano le ore grevi a suon di cupa cupa e organetto, mentre ci rivolgiamo con occhi lungimiranti al golfo di Taranto.
Luca gli chiede della sua musica e, d’un tratto, Locantore tira fuori un geniale neologismo per definire la Murgialonga: un cammino enogastrofonico. Lemma fantastico!
Riprendiamo a camminare verso Masseria Radogna, il timo impavido sembra aver gettato la spugna, ci sono altri profumi che fanno interferenza, e le rocce lasciano spazio alla vegetazione. Siamo su un tappeto verde chiaro che conserva le punte ingiallite estive, ancora per poco. Verso il capolinea comincia a sentirsi l’essenza acidula e argillosa dell’Amaro lucano.
Il cielo si fa grigio per intero, andiamo attraversando i colori di un melograno sulla terrazza imperitura del villaggio neolitico.
Ritornano le ferule a riconciliarsi con la tenera malinconia della gravina al tramonto. Il loro marrone va a schiantarsi contro il cinereo delle nubi, che afferrano il colore del suono di Cerere e lo scaraventano nel mondo dei morti. Il Caereris mundus, l’incavo che veniva aperto nella terra nei primi giorni di ottobre perché la dea delle messi potesse unire i vivi coi morti. Daniela Ippolito, di labbra e di capelli rosso sangue. Ha le dita che si vanno a modellare nel romanticismo della sua arpa. E noi, immobili al suo cospetto, a guardarla giocare con le corde del cuore. Come se quello strumento fosse l’estensione di sé e lei si divertisse a mostrarsi.
Le nuvole cominciano a gocciolare, il tempo si strappa, si interrompe la pellicola, i miei appunti si bagnano e cadono gocce soavi anche sul mio viso. Un suono etereo, l’Eco delle lacrime di Narciso che prende forma al confine di se stesso.
Qui, nel punto in cui la dea si colloca per mediare tra la vita e l’immortalità, la Murgialonga completa la sua strada, e noi, noi ne cerchiamo un’altra.