Da Punta Raisi a Palermo è una coltre di cemento che si erge con arroganza ai piedi di colline rocciose che cadono con forza nel mare nostrum.
Luca – viaggiatore senza confini e artista della fotografia – dice che manca poco per arrivare a Capaci, e mi concentro sulla strada per sentirmi addosso l’odore della strage. Gli occhi vanno in alto a destra, su una scritta blu “No, Mafia!”, dipinta sul costone.
Il cemento e le rocce si contendono l’orizzonte, hanno lo stesso colore: giallo chiaro che va bruciandosi verso l’arancio.
La strada si ferma a via Dante, A casa di amici, l’ostello di Palermo, punto di partenza dei viandanti. C’è Davide Comunale ad aspettarci, archeologo camminatore. Ha le antiche vie della Sicilia al posto delle arterie, si capisce dal suo fare compulsivo e dal parlare senza limite di vie, di vie francigene, di Sicilia della carne.
Saliamo nei colori e per le sontuosità degli strumenti musicali che sono ovunque, in questo posto. Alla fine delle scale, c’è Santo Vitale, un omone dalle vichinghe fattezze, musicista, costruttore di percussioni, che ci fa sentire subito a casa con il caffè.
Prima tappa, u mercatu du Capu – il mercato del Capo.
Il Capo è una delle quattro fette della città. Il cibo, il modo in cui è posato nei contenitori. I contenitori, che sono cassette di legno o cestini di giunco. La frutta più grande e colorata, gli ortaggi dalle forme più indigene. «Avvocato! – una voce da una bottega – questo lo vuole? È buono, lo può cucinare con… », e mi perdo nell’arte della persuasione del pescivendolo, che con la lingua ronza attorno all’uomo che non si lascia scappare una smorfia.
L’archeologo racconta, ma ogni tanto mi allontano perché ho bisogno di legarmi da sola a questa terra. Luca è in silenzio e non perde anche solo uno dei fotogrammi che gli girano intorno.
Mangiamo ciliegie e camminiamo sotto il sole africano dell’una. La cattedrale della Santa Vergine Maria Assunta, patrimonio dell’umanità, ci si prospetta dinanzi come una conquista. È la tomba dei grandi uomini.
Don Pino Puglisi, l’uomo che contrastò la mafia, è qui. Federico II di Svevia anche, e poi altri reali di Aragona e d’Altavilla. E la Santuzza, Santa Rosalia, che scappa sui monti Sicani per non sposarsi a chi era stata promessa, lascia qui qualcosa del suo corpo.
Palermo è la città degli ottantanove santi, crogiolo di figure che vivono in totale equilibrio.
Nella brezza calda del pomeriggio, pranziamo in una osteria al centro della città con Danuta e Giovanni, due camminatori a pedali. Austriaca lei e siciliano lui, hanno una creatura di nome Ciclabili Siciliane. E ci raccontano del loro viaggio europeo in bicicletta, dove è cominciato tutto: hanno un modo così libero e legato di stare assieme da far venire voglia. La loro idea di viaggio che è più nella percorrenza di una via che nel paesaggio la stanno costruendo sulle strade della Sicilia.
Caffè a piazza Bellini – come a Napoli –, siamo davanti alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, nota come Martorana, e c’è un matrimonio nell’ora più rovente. Io e Luca entriamo a dare una occhiata, siamo riconoscibili: zaino in spalla, pantaloncini e capelli scomposti contro l’impeccabilità degli invitati alla cerimonia. Una meraviglia che non possiamo ammirare oggi. Da tenere presente come pretesto per ritornarci.
Attraversiamo le vie di Palermo per raggiungere Bagheria, Baarìa, che in fenicio vuol dire fine della spiaggia. Filiamo dritto al Museo dell’acciuga di Aspra. Luca guida e Davide parla, è facile perdersi fuori del finestrino. Il tramonto sulla destra arriva in diagonale, e porta un’aria di consolazione dritta nel parabrezza.
Rosso, azzurro, giallo. A righe su fondo bianco legnoso. Le barche vengono a noi formando una traiettoria. Caldo, molto caldo, che man mano che ci si allontana da Palermo diventa più sopportabile.
Michelangelo Balistreri è davanti al suo museo con Giovanni Di Cristina, coordinatore del progetto “Da Solùnto ai Monti Sicani”, e Giusi Sciortino, impegnata con lui nello sviluppo territoriale. Siamo in ritardo di un paio di ore.
Con fare istrionico Balistreri comincia u cunto ri l’anciova – la storia dell’acciuga – partendo da Maria di Magdala. In questa terra si parla in modo logorroico. È il terzo uomo che ha la lingua inarrestabile, oggi. Le donne sono silenziose, invece. Annuiscono.
«La barca ha il nome della moglie, questa è la religione del mare» – dice Michelangelo. «E maffia – con due f – era una organizzazione per la produzione di bellezza femminile: cominciava tutto così». Lo dicono anche le scatole di latta con la donna prosperosa con su scritto Acciuga salata alla carne e Acciuga salata alla vera carne.
Michelangelo passa dai racconti orali alla poesia, e poi va nei suoi strumenti musicali a corde. E restiamo sotto assedio nei cunicoli del museo fino a tramonto inoltrato.
La sera finisce a cena sul mare: panelle con il limone e vino frappato della valle d’Acate, che nasce dalla terra nera dai ciottoli bianchi.
Sabato, secondo giorno. Sveglia alle sei, c’è un’aria leggera. Di gradi ne sono già ventiquattro.
Andiamo verso il borgo di Piana degli Albanesi dove comincerà il nostro cammino. Siamo io e Luca, e ancora Davide a farci da guida.
Colazione con cannoli cunzati e via: fino a Masseria Rossella abbiamo dodici chilometri di strada, nelle distese di grano che si rincorrono fino a Corleone.
Santa Cristina Gela. La prima fermata si raggiunge subito da Piana degli Albanesi, abbiamo il lago e il dente appuntito di Portella della Ginestra a sud-sud est dei nostri passi.
Qui, incontriamo Massimo Diano, il giovane sindaco. Compiaciuto del fatto che il suo borgo ha visto aumentare i suoi abitanti da poco più di novecento a mille. Un dato significativo e singolare.
L’arbëreshë è la lingua parlata oltre all’italiano. Anche su whatsapp. Fantastico!
Le ombre cominciano a scomparire e dopo aver rifiutato il passaggio in macchina offerto da Giovanni, riprendiamo il cammino. Alleato è il placido venticello che rimbalza sull’asfalto che abbandoniamo presto, decidendo di raggiungere il sentiero attraverso un campo di ortiche arse dalla calura.
I primi segni della via Francigena sono visibili: Davide e la sua associazione Magna via Francigena stanno togliendo polvere dalle trazzere, le antiche vie laiche e religiose che prendono identità sotto le orme dei viandanti.
A ogni tappa c’è un segnale che indica i chilometri e il punto successivo.
Siamo vicini a mezzogiorno, Davide parla parla e parla, ha molta voglia di rimpinzarci di Sicilia in un tempo troppo compresso per la bellezza. Da Masseria Rossella ci divide una collina di giallo paglierino. Il sole è alto e non è semplice passarci sotto, se non si decide di svuotare la borraccia d’acqua in testa e sentire il fresco sulle tempie bagnate. Siamo vicini alla masseria di Benedetta, un’amica dell’archeologo. È qui che ci fermiamo prima dell’arrivo. Benedetta – donna dai lineamenti soavi – vuole prepararci da mangiare, propone molte cose, ma dobbiamo proseguire e banchettiamo con acqua e albicocche, niente di più amorevole.
Dopo esserci alleggeriti della calura sulle braccia, continuiamo il cammino fino alla nostra masseria, punto della tregua di oggi. Un gelso gigante protegge il giardino, nella sua chioma miliardi di api che ronzano in un coro di voci estreme.
Salutiamo Davide e raggiungiamo la deriva all’ombra dei pini che si affacciano sulla valle dello Scanzano, aprendo la vista sull’altopiano di Corleone. Giallo, ovunque giallo, interrotto a tratti da minuscole strisce di verde che si spezzano alla vista.
Si avvicina la notte a Piana degli Albanesi, il buio è cucito di stelle così strette da non riuscire a trovare scuro. Le luci artificiali non esistono, per le viuzze non corrono lampioni e questa è una grazia.
Domenica, ultimo giorno. La sveglia è come un masso caduto sul capo.
Ritroviamo Giovanni e Giusi conosciuti il primo giorno. Sono a Ficuzza, una frazione di Corleone.
Colazione al bar di fronte alla tenuta reale di caccia di Ferdinando di Borbone, e via verso Mezzojuso, sulle tracce della diaspora albanese in Italia.
A Mezzojuso non si parla l’arbëreshë, seppure sia uno dei cinque comuni albanesi della Sicilia, ma c’è il Mastro di Campo che a ogni Carnevale esce allo scoperto per le vie del borgo.
Commistione di epoche e di personaggi che incorniciano il rito dell’adulterio legalizzato: il mastro – nella realtà storica è il conte Bernardo Cabrera – arriva al castello per conquistare la regina, deve diventare la sua donna. Sfida il re con azioni funamboliche e con il sostegno della folla, vincendo.
Dal rosso del mastro di Campo a colori più tenui del restauro del libro antico.
Ci troviamo nel chiostro della chiesa della Madonna di tutte le grazie. Matteo, il restauratore, ci porta nel suo laboratorio e prende a raccontare: «Ai tempi dell’alluvione di Firenze abbiamo dato una grossa mano per la ricostruzione della carta e la conservazione del materiale salvato». – dice, passando le mani rotondeggianti sui fogli come il papà carezza il viso del suo bambino. Ci mostra le decorazioni e gli intagli che fa sul legno e altri materiali: ingioiella i libri come fossero colli di donne bizantine.
Le radici di questa terra sono impregnate di religiosità e paganesimo assieme, non si riesce a distinguerli dove comincia l’uno e dove finisce l’altro: le iconostasi della chiesa della Madonna di tutte le grazie, i reliquiari che sono ovunque. Anche più di uno. I segni, i sensi, i colori. Il divino, il terreno.
Il personaggio del giorno è Ciro Coniglio, il sindaco di Baucina, che si muove e gesticola come un uomo in piena rivoluzione. Si prende cura di noi dal pranzo che condividiamo all’agriturismo Case Varisco di Ventimiglia.
Panelle, panelle di ceci. Le migliori di questi tre giorni di Sicilia. Milza di vitello – mievusa – nel panino col sesamo. E caponata di melanzane, anche lei compagna di viaggio fissa. Tutto è abbondante su questa tavola, anche le braccia di Ciro che fanno giri tondi in aria, come volesse portarci nel suo spazio.
Continuando a mantenere un certo ritardo, partiamo per Altavilla Milicia verso il santuario che guarda il mare negli occhi. Oggi la giornata è dedicata agli itinerari religiosi.
Il museo dell’ex-voto è nei sotterranei della chiesa della Madonna della Milicia. Su quattrocento lamine di metallo – scatole di sardine aperte e stirate come fogli di carta – sono dipinti gli eventi che accadono agli uomini. Di natura e di colore diverso. Anche Renato Guttuso ha lasciato la sua traccia su questi fogli laminati.
Da Altavilla Milicia a Ciminna, Ciro guida come se avesse una motocicletta tra le mani. Le curve segnano il ventre dei monti Sicani e permettono al sole di entrarci di tanto in tanto.
Il polo museale di Ciminna è traccia fotografica del film di Luchino Visconti e presto – ci dice il buon curatore della mostra – saranno raggiungibili anche i luoghi del set de Il gattopardo, cosicché in paese ci sia movimento di stranieri.
È tardo pomeriggio. La reliquia della Santuzza, Santa Rosalia, è a Baucina, alla chiesa madre a lei dedicata. È qui che terminiamo la corsa di oggi. Al paese di Ciro.
Per le strade, che rimandano alle salite-discese di San Francisco o come dice Giusi, a Lisbona, le donne sono in agitazione con tessuti e petali di fiori: preparano altari per accogliere la processione del corpus domini. Sono affannate preoccupandosi di fare attenzione coi movimenti, mentre gli uomini, seduti davanti all’uscio, le guardano. Uomini e bambini.
Luca si ferma davanti a un altare per scattare una fotografia, la signora affacciata al balcone manda giù sua figlia: «Aspettate, si deve sistemare là». Il momento diventa leggenda.
Quanto Sud c’è in questo imperativo! La premura di fare in modo che sia tutto a posto prima di permettere a qualcuno di guardare o di fermare una immagine. Mi ricorda il velo della sposa nel giorno delle nozze: ci sono sempre delle donne appostate subito dietro che si occupano di tenerlo sempre in ordine.
La cura. La divertente e folcloristica maniera di chi non vuole farsi trovare impreparato.
Un crogiolo di menti, di credenze che possono coesistere davanti a una birra sul belvedere di Baucina, da cui si ammira il mare al primo chiarore della sera: è così che salutiamo i nostri compagni di viaggio di oggi.
Instupiditi e sommersi di strada e di incontri, rientriamo a casa sapendo che ci sono dei luoghi e delle dimensioni in cui gli esseri umani possono star bene senza fare in modo che succeda.