Stazione di Barletta. Il cielo è bianco di scirocco. Rino Gaetano alla radio mi fa pensare che saranno giorni belli. Superata la rotonda di Canosa di Puglia la strada si fa dritta, solca enormi distese di vigneti. E i profili delle Murge sbiadiscono alla vista.
Dopo molti chilometri di prateria murgiana compaiono case bianche attaccate l’una all’altra come braccia affacciate al balcone sulla valle dell’Ofanto. Resistenti al vento delle Murge.
Minervino Murge è qui da duemila anni prima di Cristo, in seno alla dea Minerva.
In undici saremo sulla via Sveva del Cammino Materano – negli ultimi cinque chilometri di strada da Castel del Monte a Minervino –, nove giornalisti per la maggior parte milanesi e due guide dell’associazione In Itinere, Angelo, che ne è il presidente, e Claudio.
Primo giorno. Attraversiamo lenti i capelli d’angelo mossi dalle correnti dell’alta Murgia; fili morbidi di piante che spianano davanti agli occhi un mare di luce bionda e si abbattono nei muretti in pietra che i contadini formano ai confini dei loro terreni quando li liberano dei sassi che non permettono alle coltivazioni di crescere.
Lungo il sentiero si aprono le ferite che le cave hanno provocato sull’altopiano. Cave – ci dicono – non tutte controllate e a posto. E ad amplificare lo schiaffo sono le pale eoliche che vanno zigzagando al margine della strada. Sembrano non dare fastidio, ma trascinano la mente in quel roteare selvaggio.
La voce di Angelo interrompe questo gioco e riporta al paesaggio, a tutti gli uomini che nei tempi passati lo attraversarono.
Angelo dedica tutto il tempo alla storia della sua terra, studia le vie principali che in passato dall’oriente portavano a Matera – ci spiega durante il cammino – dandole identità nella mappa del Cammino Materano.
Questo Cammino Materano, che tanto rimanda all’idea del Camino de Santiago, è fatto di quattro vie: la Dauna, che parte da Lucera, la Sveva, da Trani, la via Peuceta che comincia da Bari e la via Ellenica che da Brindisi, assieme alle altre, finisce a Matera.
Scavallando l’altopiano, in direzione di Minervino, compare l’enorme faraglione nella distesa verde, il Vulture, cugino del Vesuvio, per le sue fattezze.
Mentuccia selvatica, timo, malva e graminacee accompagnano i nostri passi fino al centro abitato.
Arriviamo al paese dalle spalle, passando tra sedie e stendini messi tra un vicolo e l’altro nella parte dove batte ancora il sole. Minervino ci accoglie con il profumo di sapone Marsiglia, che il vento sposta nell’aria, e di aglio rosolato nell’olio della Puglia.
È ora di pranzo. Andiamo a mangiare a Masseria Barbera, infilata in un tavoliere di papaveri. Non si è smaltito tutto il buon mangiare della sera prima che già sulla tavola si ripresentano i sapori antichi. Il dominio del banchetto lo prende il lampascione, nella sua semplicità e eleganza.
La convivialità si prolunga per tutto il tempo della siesta assieme al Nero di Troia, che ha una scena pazzesca per affermarsi in queste terre.
L’accoglienza continua nella scesciola, che in arabo shawash‘ala vuol dire labirinto. Un centro storico bianco con i gerani colorati e le porte smaltate, in cui finiamo spettatori di una partita di pallone con pubblico di mamme e di nonne. Case che non sono più abitate e case che lo sono. Case diventate bed and breakfast. Sottani, mezzani, soprani. Un labirinto che a ogni tre passi mostra la luce del tramonto che si abbatte sulle Murge con una sontuosità saracena.
Le arcate e i divisori tra le case hanno le tipiche forme della kasbah di Algeri. E di essa vanno nascondendo i misteri più arcaici, come i simboli che si incastonano nelle pietre delle pareti levigate.
C’è un’aria croccante a Minervino sul far del tramonto, un vento che fa venire gli occhi umidi.
Il cestaio Vincenzo Carlone è nella sua bottega che aspetta, con gli occhi piccoli, sorridenti e lucidi abbastanza da dirci quanto sia emozionato a raccontarsi. C’è una insegna in legno dietro di lui che parla, con su scritto “cesteria rurale”, una simpatica sineddoche. Ci parla della sua vita, dei cesti, del suo papà morto a centodue anni. Rianima tutti i giunchi intrecciati attorno a noi, ci porta per tutto il suo spazio fatto di cunicoli che sbucano in altri. E via così, fino a uscire attraversando altre sculture di cesto imbalsamate come gli oggetti di una sala esposizione di una qualunque bottega metropolitana.
Fuori, il Vulture si fa blu su una striscia di terra arancia rossa. Il sole di metà maggio nelle Murge cala tardi, è facile farsi sorprendere a contemplarlo. Mi faccio aiutare dall’oste e dalle stelle a trovare la direzione di casa e raggiungo il gruppo per mangiare il cibo più buono dell’alta Murgia, all’Osteria Brandi. Ancora lampascioni, stavolta in tortino, e ancora Nero di Troia.
La notte alla Masseria San Vincenzo è coperta di stelle. Il buio in questo spazio cosmico le fa vedere tutte, in ogni sua piega il cielo si fa guardare. Gli uccelli notturni cantano nelle graminacee, annuncio che domani sarà bel tempo.
Secondo giorno, tappa Minervino – Spinazzola, siamo sugli ultimi cinque chilometri di questa via Sveva. Il sole è già alto quando ci mettiamo in cammino. Al posto di Claudio, oggi, c’è Lorenzo con Angelo.
Fino a Spinazzola il sentiero costeggia un torrente, un concerto di ranocchie sveglia questo mare di onde verdi. Qui, la terra ha il potere nelle sue geometrie. L’uomo può solo colorarle.
Pale eoliche non ne incontriamo, ma sul lato destro dei nostri piedi ci sono le reti dei materassi riutilizzate per creare i cancelli davanti agli orti e per delimitarne i confini. Segno che è ancora possibile incontrare forme di vita intelligente e che l’homo sapiens sapiens da queste parti esiste.
Lungo la strada si parla di un classico di tutti i tempi: il Sud e il suo patrimonio ridotto a brandelli dalle cattive amministrazioni del passato e di quelle che ancora perpetrano i danni. Però, Angelo ricorda anche quanto disastro sia stato fatto e continui un po’ più al settentrione di noi.
Il campanile di Spinazzola si vede in lontananza tra la vegetazione che si infittisce sempre di più, i canneti hanno lasciato spazio agli orti di bietole e di fave. Di pomodori e di fagiolini. E di alberi alti che regalano una striscia d’ombra ai lati del sentiero.
Gli ultimi metri prima di arrivare al centro storico sono in salita, sbuchiamo dietro alle rovine del castello normanno. Ritorna il bianco della Grecia, e prima di proseguire ci fermiamo a leggere delle citazioni incise su rettangoli di legno, fissati al muretto che cinge i ruderi del castello.
Poco più avanti, nella prima piazza si trova una campana ancorata a degli scalini, notizia che la vita di Antonio Pignatelli – Papa Innocenzo XII – ha radici qui.
L’arrivo in paese è fresco e leggero, prima di fermarci a pranzo. Oggi, di nuovo lampascioni, cucinati però in altra maniera, assieme a tutte le interminabili delizie pugliesi. A tavola c’è Nicoletta, l’assessore alla cultura e allo sport. Ci dice che stanno facendo tanto – e si vede –, che sarà una estate piena di eventi per permettere ai giovani di restare a Spinazzola.
Qui, si producono grani antichi e canapa! E lo dicono i biscotti, il pane e la pasta che sono sulla tavola.
Dopo l’immensa mangiata, si prosegue verso Terlizzi, stavolta con un mezzo gommato. La strada è un filo sottile di asfalto affogato dal rosso papavero. Come è bella la Puglia interna al tramonto, altro che mare. Ce l’hanno qui il mare: c’è il grano a farsi portare dalle correnti del cielo. In lontananza, Castel del Monte, sobrio e minimalista se ne sta, noncurante di chi ci passa sotto.
Terzo giorno, ultimo. Prima della partenza ci si ferma per dilatare il tempo. Il mezzo gommato ci porta per le vie dei vigneti, con noi c’è Massimiliano, il giovane assessore alla cultura e allo sport di Minervino.
Siamo nella Puglia imperiale, quella terra vulcanica benedetta dal vecchio Vulture e dal sole che attraversa i vigneti e gli uliveti come la brezza leggera nelle tende bianche della tenuta Bocca di Lupo – Tormaresca. Centoquaranta ettari di vigna per arrivarci, su strade impolverate senza traffico e che, vivaddio, non conoscono colonialismo scellerato.
Silenzio, eleganza, semplicità. L’uomo che ci accoglie a tavola è uno dei papà di questo forte, passa a fare la croce sul piatto di ognuno con l’olio di coratina, e questa è una cosa che fa sentire a casa.
Ripresi dalla delizia del pranzo e del miglior vino bevuto in questi tre giorni di umanità, ci aspetta Domenico in Masseria San Vincenzo per fare i nodini di mozzarella.
Come per concludere, arriva la pioggia lenta e delicata, un evidente segno di commiato delle terre di mezzo, a cavallo sulle gravine africane che restano il miglior rifugio dalle battaglie. Cibernetiche.
#mineviandanti in Alta Murgia!